di Christian Raimo
PARLIAMO DI QUELLO DI CUI PARLIAMO senza parlarne mai: parliamo di morte. Quest’anno, come al solito, sui giornali ne abbiamo parlato moltissimo, vittime del terrorismo, delle guerre, dei naufragi nel Mediterraneo, e poi i morti famosi, come David Bowie, Gianroberto Casaleggio, Prince, tanto da far sembrare il 2016 un anno più funesto degli altri. Le morti fanno audience, chiamano i clic; da quando esistono i social network abbiamo sviluppato una gran dimestichezza nell’elaborazione collettiva del lutto, qualunque reazione abbiamo: possiamo commuoverci, piangere, fare un applauso a un funerale, essere spiazzati, impauriti, nostalgici, abituati, scioccati, impressionati, cinici, ma sappiamo avere a che fare con la morte. Posiamo i nostri fiori veri o simbolici, ci stringiamo nel dolore.
Eppure pochissimi di noi hanno visto un cadavere, come dire, “dal vivo”. Ancora di meno hanno avuto l’occasione di assistere qualcuno nel momento del trapasso. La morte, scriveva Geoffrey Gorer in un saggio del 1955, è diventata pornografica. La stessa definizione che usava anche Philippe Ariés nella Storia della morte in occidente nel 1978: si muore da soli, negli ospedali, spesso in camere singole o nascosti da una tendina. La morte è un rito osceno e privato. Continua a esistere, possiamo conoscerla, saperla in tempo reale, ma scompare dalla nostra vista.
Per questo, molto spesso, quando so della notizia della morte di una persona – qualcuno che conoscevo di persona, o anche qualcuno di noto – provo ad allargare di un pezzettino lo spazio emotivo da dedicare all’evento. Mi dico: è morto David Bowie, uno dei più grandi musicisti degli ultimi cinquant’anni, riascoltiamo tutti i suoi dischi, discutiamo dell’importanza che ha avuto in tutta la cultura popolare, ma mettiamoci di fronte per un po’ alla nudità dell’evento in sé. Questo fatto della morte. Non è facile. […]