Ampiamente diffusa, e non solo nel nostro Paese, la credenza che in passato si morisse “meglio”: nel proprio letto, circondati dai propri cari che fornivano amorevole assistenza. Ma era veramente così?
A questa domanda ha dato risposta il sociologo Marzio Barbargli nel corso del convegno “Con dignità, senza dolore“, organizzato a Bologna dalla nostra Associazione in data 12 gennaio 2019.
Di seguito, il riassunto del suo intervento “Tempi, luoghi e competenze: i luoghi della cura, i luoghi della morte”.
«Il filosofo tedesco Walter Benjamin è stato il primo a sostenere una tesi che, nel corso del Novecento, sarebbe diventata dominante: scrisse che i figli dei borghesi mandavano sempre più i propri genitori a morire negli ospedali perché non sopportavano la vista dei morenti.
«Nell’ultimo trentennio del Novecento, questa tesi fu ripresa da grandi studiosi delle più diverse discipline (tra i più noti: lo storico francese Philippe Ariès), sottolineando che sempre meno persone morivano in casa e sempre più spesso si moriva in ospedali, rilevando che questo processo di ospedalizzazione della morte era iniziato negli anni trenta del ‘900 nei Paesi europei più sviluppati.
«Per quanto questi libri siano stati importanti, erano soprattutto libri di denuncia, non avvalorati da solide ricerche sociali ed economiche.
«L’ideale di morire circondati dai propri cari, nel proprio ambiente domestico, non è un desiderio prettamente moderno: è un errore pensare che, in passato, si morisse in questo modo.
«Per secoli, in Italia come negli altri Paesi europei, soprattutto durante le crisi di mortalità dalla metà del Trecento alla metà del Seicento, e poi tra la fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, un’alta percentuale di persone non moriva affatto a casa, e talvolta nemmeno negli ospedali. Morivano sole, abbandonate in strada o nei lazzaretti, nel vano tentativo di bloccare il contagio.
«L’ospedalizzazione della morte, inoltre, non ha inizio nei Paesi più sviluppati dell’Europa, bensì dall’Australia, seguita dal Canada e dagli Stati Uniti, e non per nascondere la morte, ma perché, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, erano paesi di immigrati, composti da una popolazione che non aveva una famiglia, oppure poteva contare su legami familiari ancora non consolidati.
«Oggi, la percentuale delle persone che, tra gli ultraottantenni, muore in casa è del 44% in Italia, 21% negli Stati Uniti, 18% in Olanda. Sono percentuali che hanno radici culturali: i legami famigliari verticali, tra genitori anziani e figli adulti, nel nostro Paese sono infatti più forti che altrove.
«Senza contare che, in alcuni paesi sviluppati, stiamo assistendo proprio un’inversione di tendenza: a partire dal 1983, negli Stati Uniti, il processo di ospedalizzazione della morte si è arrestato e la quota di persone che muore in ospedale ha iniziato a diminuire e sta ancora diminuendo, mentre è aumentatala la percentuale delle persone che muore nella propria abitazione o in altri luoghi diversi dagli ospedali.
«Questo processo è iniziato tra gli strati più alti della popolazione, con livelli d’istruzione più alti e, soprattutto, ha avuto inizio tra i malati oncologici che, per primi, hanno avuto accesso alle cure palliative negli hospice e a domicilio».
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Per approfondire
I dati presentati possono essere approfonditi grazie alla lettura del libro del Prof. Marzio Barbargli “Alla fine della vita. Morire in Italia”, edito da Il Mulino nel 2018.
È possibile rivedere tutto il convegno Con dignità, senza dolore grazie alla video-registrazione curata da RadioRadicale: Convegno sulle cure palliative: la video registrazione
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Marzio Barbagli
Sociologo e accademico italiano. Professore emerito di sociologia dell’Università di Bologna. Ha scritto numerosi saggi sui molteplici temi: famiglie e politiche sociali, invecchiamento, sanità pubblica, suicidio, ecc.