LA TENDENZA A RIMUOVERE LA MORTE che si è riaffermata negli ultimi anni si riverbera nelle cure palliative e, in generale, nell’approccio assistenziale al morente. Il medico psicologo Francesco Campione, esperto in Tanatologia, ha scritto una lettera aperta per sottolineare l’opportunità di tornare a riflettere e discutere su questi temi allo scopo di favorire la ripresa di un “pensiero creativo” sulla morte.
Cari Amici,
Chi lavora, a vario titolo e con diversi ruoli, nell’assistenza ai morenti tende a pensare che la “rimozione della morte” riguardi tutti gli altri, cioè coloro che non hanno con essa un contatto quotidiano.
In realtà, a guardare bene ciò che sta avvenendo nel nostro contesto culturale, le ragioni profonde della “rimozione della morte” tendono nuovamente a imporsi universalmente dopo che sembrava essersi aperta una finestra comunicativa grazie al diffondersi dell’opera di Elizabeth Kubler-Ross, al diffondersi delle Cure Palliative e dell’istituzione di strutture come gli Hospice, specificamente dedicate alla cura dei malati terminali.
Vorrei sottoporvi qualche riflessione al proposito.
Da quando si ritiene giustamente che le Cure palliative debbano essere garantite a tutti coloro che soffrono – anche quando c’è ancora qualcosa da fare per salvare la vita e non solo ai morenti (o malati terminali che dir si voglia) – anche coloro che assistono i morenti si sentono autorizzati a dimenticare che c’è una sofferenza che non si chiama dolore, ma angoscia di morte e che quando si pensa di poterla alleviare solo con le tecniche mediche di palliazione del dolore si è costretti prima a “rimuovere” la morte. In sostanza, stiamo andando verso una Medicina Palliativa che, considerando la palliazione del dolore sempre un fine, si basa sulla “rimozione della morte” che le consente di non vedere i casi in cui invece la palliazione del dolore è un mezzo per poter vivere decentemente e rinviare così il contatto con la morte imminente.
In sostanza, tende ad affermarsi anche nelle Cure palliative la tendenza della nostra Cultura a concepire la morte, da una parte, come un annullamento senza rimedio (data la crisi della fede nell’aldilà) a cui è meglio non pensare; dall’altra, come “morte naturale”, cioè un morire biologico, una trasformazione della materia organica atta a rientrare nel ciclo della vita, e a cui basta garantire una “buona qualità” e una “durata naturale” finché la vita organica non si disgrega diventando inorganica, potendosene successivamente disinteressare: come se della vita organica non restassero “tracce” personali e umane di cui valga la pena di preoccuparsi in vita.
Finiscono così senza voce tutti desideri di non morire, tutti i rifiuti della morte e tutte le preoccupazioni per il dopo (cosa ci succederà e come lasciamo gli altri), e se si manifestano bisogna in qualche modo “razionalizzarli” o, peggio, reprimerli.
Con quali conseguenze?
Tre conseguenze gravissime tra le altre:
1. Il desiderio di non morire tende a diventare patologico, impoverendo la vita umana per toglierle il suo proiettarsi oltre se stessa (cioè verso il futuro e verso gli altri che pure resteranno dopo che moriremo, o verso l’Eternità e l’Infinito: due espressioni della poesia, della creatività e della spiritualità dell’Umano);
2. Chi rifiuta la morte rischia di impazzire, dato che non trova alcuna cittadinanza la possibilità di pensare l’impossibile (Eternità e Infinito) come un “bene” che si può anche desiderare senza volerlo realizzare;
3. Il lutto per la propria morte si stacca dal lutto di chi resta per la morte dei cari e viene rimosso e represso, non potendo così chi muore contribuire più al lutto di coloro che lascia, perché indotto durante il morire ad occuparsi solo della morte per sé (il presente del morire) e non della morte per altri (il futuro di ogni morire).
Con le ripercussioni, sotto gli occhi di tutti, sull’assistenza dei morenti e delle loro famiglie che tendono ad instaurarsi, a parte qualche eccezione faticosa, nella maggior parte dei contesti assistenziali.
L’assistenza psicologica dei morenti tende così a “spersonalizzarsi”, dovendo perdere (punti 1 e 2) l’ambivalenza tipica di ogni persona, allorché le si richiede di indurre i morenti a smettere di desiderare di vivere per sempre per desiderare una “morte naturale”, cioè una vita a termine fin dall’inizio. Senza pressioni in questo senso, la psicologia sarebbe perfettamente in grado di aiutare i morenti a far convivere dentro di sé il desiderio di non morire mai e la consapevolezza di dover morire, dato che ci sono desideri (quelli impossibili) che non sono solo da realizzare, ma si possono anche solo desiderare.
Inoltre, l’assistenza umana ai morenti tende (punto 3) a scomparire (assorbita dall’assistenza sanitaria e da un’assistenza psicologica normalizzante delle ambivalenze e posta al suo servizio), e si spezza il sodalizio, che da sempre sostanzia ogni umanità, tra il morente del cui morire si fa carico il vivente e il vivente del cui vivere dopo la morte si fa carico il morente.
Ma perché, se le cose stanno così, la concezione dominante della morte della nostra cultura (morte come annullamento senza rimedio o morte naturale che non necessita di nessun rimedio) sta nuovamente prevalendo e la “rimozione della morte” torna più forte di prima? Non perché non abbia i limiti che abbiamo riscontrato e che sono sempre più evidenti e gravi, ma per mancanza di alternative culturali creative.
Riaccendere il movimento culturale che ha combattuto negli ultimi cinquant’anni (a partire da pionieri come Ariès, Vovelle, Levinas, Gorer e Kubler-Ross) la rimozione della morte, rinnovando la Cultura e la Medicina, potrebbe suscitare un fermento favorevole a una ripresa di creatività che non ci condanni a tornare indietro verso chissà quali necessità repressive (non ci diranno un giorno o l’altro, come dice il titolo di un recente libro di uno scienziato francese che siano arrivati alla “Morte della morte”, dato che con le nanotecnologie vivremo mille anni?).
Sarebbe ovviamente bello “uccidere la morte” e non morire mai, ma purtroppo ancora per molto dovremo essere “contro la morte” senza poterla vincere. E va rispettato il tentativo della nostra Cultura di prenderne atto nell’unico modo che conosce: come si fa con un nemico che non si può vincere e, cioè, cercando di ignorarla. Ma come Tanatologi abbiamo il dovere di avvertire che si tratta di un tentativo simile a quello dei bambini che cercano di far scomparire magicamente ciò che non gli piace: le magie esistono, ma come i giochi durano poco: basta che una persona cara muoia e che ci ammaliamo gravemente perché voler non pensare alla morte diventi per la maggior parte di noi impossibile da attuare e da supportare senza pagare il prezzo di un’inautenticità da compatire, ma disumanizzante.
Credo che come Tanatologi abbiamo una responsabilità maggiore di altri in questo senso, e faccio appello a quanti di voi condividono l’impostazione abbozzata nelle pagine che precedono per una mobilitazione atta a promuovere le condizioni di una ripresa del pensiero creativo sulla morte che apra l’orizzonte al “colpo di genio” (era Nietzsche che chiamava così l’idea di Gesù per cui la morte è solo un sonno dal quale ci sveglieremo risorgendo) ormai necessario per non veder languire l’Umanità nella sua rinnovata impotenza verso la morte. O per trovare nuove vie per gestirla, questa impotenza, in un modo meno infantile di quello – pur rispettosissimo – consistente nel cercare di distrarsi e non pensarci.
Francesco Campione