Condividiamo con voi un’interessante riflessione sul tema del “dolore che non va via”, ovvero quello che in psichiatria viene definito “lutto prolungato”.
Il lutto prolungato è definito come un disturbo clinico che blocca chi ha perso qualcuno all’interno del processo del lutto, rendendogli impossibile continuare a vivere.
Questo disturbo è stato inserito di recente all’interno del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, con tanto di definizione, sequenza temporale corretta e specifiche cliniche su come curarlo.
Seppur sia un passo importante riconoscere il lutto prolungato come una patologia e dare degli strumenti ai professionisti per curarlo al meglio, è anche vero che, come scrive l’infermiera Stefanie Lyn Kaufman-Mthimkhulu su Well and Good:
«Secondo l’istituzione medica che riceviamo, sei mesi sono “la sequenza temporale corretta” per il lutto, ma è davvero un tempo adeguato?
«La nostra cultura definisce la salute mentale in base alla nostra capacità di produrre, funzionare, lavorare, avere un impatto minimo sugli altri e apparire il più “normale” possibile.
«In questo contesto – un mondo che non ci permette di fermarci, di riposare e di essere presenti a noi stessi e a quello che proviamo – dal mio punto di vista il dolore che non va via è una risposta giustificata.
«Il dolore non è infatti qualcosa da seppellire: è un rituale, un processo unico e personale, e se siamo fortunati possiamo intraprenderlo con i nostri antenati, che camminano al nostro fianco e ci aiutano nel percorso.
«Io sento ancora la voce di mia zia [morta da cinque anni, ndr] nella mia testa e le parlo sempre. La porto come me e la vedo nei miei sogni. Ci amiamo ancora. Ci conosciamo ancora. Se questo vuol dire che sono psicotica, sono felice di esserlo».
Per approfondire
Abbiamo riassunto ai minimi termini il pensiero di Stefanie Lyn Kaufman-Mthimkhulu. Per questo consigliamo la lettura integrale del suo articolo Why Prolonged Grief Shouldn’t Be Considered a Mental Illness
Sull’argomento, puoi leggere anche il nostro articolo Mantenere i legami con i defunti non è sbagliato