di David Randall (da “Internazionale”)
L’attacco terroristico di Nizza, la sparatoria di Monaco, l’incidente ferroviario in Puglia, i bambini investiti dalle macchine in tutte le città a tutte le ore: ogni giorno i notiziari riportano tragedie e manifestazioni in onore dei morti. E, altrettanto inesorabili, sembrano essere le lamentele sui social network per l’incapacità e l’insensibilità dei giornalisti nel raccontare la morte, le sue vittime e le loro famiglie. È una faccenda sulla quale vale la pena di riflettere.
Noi giornalisti non facciamo parte dei servizi di emergenza, che raccolgono i corpi e danno la terribile notizia alle famiglie attonite. Il nostro rapporto con la morte è di seconda mano. Raramente siamo testimoni oculari; la verità è che scriviamo di ultimi momenti ai quali non abbiamo assistito e di cose che sono successe a persone che non abbiamo mai conosciuto. Ho scritto centinaia di articoli sulla morte – incidenti, terremoti, carestie, omicidi e così via – ma, come la maggior parte dei giornalisti, la mia esperienza diretta è sempre stata limitata.
Avevo quasi trent’anni quando ho visto il primo cadavere, ed è stato nell’ambiente asettico di un obitorio, non su una strada bombardata. Era un senzatetto del quale avevo scritto e al quale a volte avevo portato da mangiare. Quando Dennis, un diabetico che non avrà avuto più di 40 anni, fu trovato morto nella casa abbandonata dove si era accampato, io ero l’unica persona che le autorità riuscirono a trovare che potesse ufficialmente identificare il corpo. Un assistente in camice bianco aprì una tenda ed eccolo lì, che sembrava più sano da morto di quanto non lo fosse sembrato in vita. Il suo viso immobile sembrava quasi levigato.
Centinaia di articoli e poca esperienza
La cosa triste è che da allora in poi non sono più riuscito a richiamare alla mente l’immagine di Dennis da vivo, tutti i ricordi di lui in movimento sono stati sostituiti da quel volto cereo steso su una lastra di marmo. È per questo che quando sono morti i miei genitori e gli addetti alle pompe funebri hanno insistito perché li vedessi, mi sono rifiutato di farlo. Volevo ricordarli com’erano quando erano pieni di vita. Se ne sono andati, senza troppe sofferenze, in età avanzata, a casa loro. E i miei pochi amici che sono morti lo hanno fatto con la stessa rapidità, compreso il mio testimone di nozze, che è spirato mentre si scolava una birra nel pub vicino casa, il tipo di fine che avrebbe voluto fare, se solo fosse arrivata trent’anni dopo. (…)